20020518 - 18 Maggio

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Discorso Divino
Bhagavân Shrî Sathya Sai Baba
18 Maggio 2002

Vero amore fraterno


“Senza egotismo ci sarà amabilità.
Senza ira non ci sarà dolore.
Senza desiderio ci sarà ricchezza.
Senza cupidigia ci sarà felicità.”

 

Incarnazioni del Divino Amore!
Finché l'uomo nutre in sé egotismo, nessuno lo amerà; se indugia nell'ira e nell'egoismo, a nessuno, neppure alla moglie ed ai figli, piacerà conversare con lui. Finché la collera è in lui, non otterrà la felicità. Finché esistono desideri illimitati, la mente non potrà essere controllata. Il giorno in cui l'uomo avrà allontanato l'avidità, potrà conseguire ogni gioia.

 


L’arrivo a Mithilâ
L’episodio del Râmâyana, di cui parleremo oggi, è molto caro a tutte le donne.
Râma e Lakshmana, insieme con il Saggio Vishvâmitra, si trasferirono da Ayodhyâ alla città di Mithilâ.
Dopo che Râma aveva spezzato l’arco di Shiva e conquistato la mano di Sîtâ, il re Janaka, dovendo celebrare il matrimonio dei due giovani, inviò un messaggio a Dasharatha, invitandolo a recarsi a Mithilâ per le nozze; per giungervi ci volevano ben quattro giorni di viaggio.
Râma apprese che Suo padre, i due fratelli minori e le regine madri sarebbero giunti a Mithilâ quella sera stessa. Lakshmana andò allora dal precettore Vishvâmitra e gli chiese: “Swami, i nostri genitori sono in arrivo; se ci accordi il tuo permesso, in questa giornata che ci resta, vorremmo visitare la città di Mithilâ.” Vishvâmitra acconsentì.
Entrambi s’incamminarono per le vie della città. Non appena i cittadini videro i due giovani, si sentirono da loro attratti come da una potente calamita. Tutte le donne che stavano lavorando in casa, uscirono per ammirarli. I bambini che studiavano a scuola, corsero fuori dalle loro classi. Tutta la gente fissava incantata i due fratelli, senza neppure un battito di ciglia.
“Oh, che meraviglia, che bellezza è questa! Essi risplendono come il sole e la luna! Da dove provengono? Perché sono venuti qua? Chi sono?” Tutti si ponevano tali domande, ma nessuno era in grado di fornire una risposta adeguata.
Era presente una donna che disse alle altre: “Io sono nata ad Ayodhyâ, ma sono venuta a vivere a Mithilâ perché mi sono sposata qui. Râma e Lakshmana sono i figli del re Dasharatha; essi incantano e attraggono gli occhi di tutti, anche quando s’aggirano per le strade di Ayodhyâ.” La donna raccontò, quindi, tutto quel che sapeva circa i loro genitori, la città dove vivevano, e la grande attrattiva esercitata dai due ragazzi.
Nonostante ci fosse molta gente, Râma e Lakshmana non sollevarono mai il capo; tenevano la testa china e gli occhi abbassati. Alcune donne dissero: “Non è il momento adatto: non guardano nella nostra direzione; il loro sguardo non è rivolto verso di noi.” Allora gettarono dei petali di fiori lungo il loro cammino, nella speranza che i due giovani dessero loro almeno un’occhiata.
Le donne fecero di tutto per catturare un loro sguardo; alcune persone offrirono persino l’ârati, la fiamma della canfora, ma Râma e Lakshmana non guardarono nessuno. A quei tempi, i giovani avevano una visione sacra, e nessuno a quell’età aveva l’abitudine di guardare le donne.
Dopo aver visitato il paese, essi fecero ritorno a casa; nel frattempo anche i genitori e i fratelli erano arrivati a Mithilâ. Quando i quattro fratelli furono nuovamente riuniti, essi irradiavano splendore come la luna in mezzo alle stelle. Vedendoli, potendo ammirare la loro bellezza, osservando il loro comportamento irreprensibile, tutti i cittadini di Mithilâ furono colti da rapita meraviglia.

 

L’arco di Shiva
L’arco di Shiva doveva essere sollevato; perciò il secondo giorno venne convocata una grande assemblea, cui parteciparono Râvana e i suoi fratelli, i re più famosi e i più valorosi.
La moglie del re Janaka, Sunetra Devî, osservava gli avvenimenti da dietro una tenda. “I ragazzi che sono arrivati qui esercitano un’immensa attrattiva, possiedono mirabili virtù e straordinaria bellezza; sarebbe bene dare moglie a uno di loro. Il re Janaka sembra impazzito. Perché mai avrà stabilito di dare Sîtâ in moglie soltanto a chi è in grado di sollevare l’arco di Shiva? Uomini forti, valorosi e coraggiosi si sono qui riuniti. Com’è possibile che questi ragazzi facciano quello che quei valorosi re non riescono a compiere? Sembrano dei giovani molto delicati: come potranno sollevare un peso di tal entità?” Mentre faceva questi commenti con le sue compagne, Sunetra dentro di sé soffriva.
Accadde, tuttavia, che nessuno dei convenuti riuscisse a sollevare l’arco di Shiva. Allora, Vishvâmitra mandò Râma. Egli aprì la cassa contenente l’arco, mentre tutti i presenti si muovevano agitati sulle loro sedie.
Soltanto Lakshmana si alzò in piedi, e con una gamba cominciò a premere il terreno, esercitandovi una gran pressione. Persino Vishvâmitra non sapeva perché Lakshmana si comportasse in quel modo; perciò gli chiese: “Lakshmana, che cosa stai facendo? Che succede?” Lakshmana, chinando il capo, rispose: “Sto soltanto aiutando il mio riverito fratello maggiore.” Infatti, Lakshmana, esercitando quella forte pressione a terra, bilanciava l’enorme peso dell’arco di Shiva.
C’era così tanto amore fra di loro! Solo a quei tempi un fratello desiderava che l’altro riuscisse vittorioso.
Una volta, mentre i ragazzi stavano giocando insieme, Bharata andò a sedersi sulle ginocchia di Kaushalyâ e si mise a piangere. Allora, la regina madre gli chiese: “Figlio caro, perché piangi? Tuo fratello maggiore ti ha forse sgridato o picchiato?” Bharata rispose: “Madre, i miei fratelli non mi sgridano, né mi picchiano; essi mi amano. Tuttavia, Râma è sempre dell’idea che io debba vincere ed Egli perdere. Per quanti sforzi faccia per farLo vincere, Râma perde e lascia vincere me.” Infatti, Râma si era fermamente proposto: “Il fratello più piccolo deve vincere e Io devo perdere.” Tutti i fratelli dicevano la stessa cosa: “Madre, per far vincere noi, Râma perde sempre, e fa di tutto perché avvenga così.”
Râma sapeva bene che il maggiore può avere gioia solo quando i fratelli più piccoli vincono e sono felici. Perciò, il maggiore desiderava soltanto educare i fratelli minori, pur andando incontro a difficoltà.

 

Il Proposito Divino
Râma tese l’arco di Shiva, e alla fine lo spezzò. Le acclamazioni e gli applausi giunsero fino al cielo. “Questo ragazzo, così giovane, ha spezzato l’arco di Shiva! Anche se ci fossero state migliaia di persone, non sarebbero riuscite a sollevarlo; furono impiegati addirittura alcuni elefanti per trascinare la cassa contenente l’arco. Come ha potuto Râma sollevare un arco così pesante e poi tenderlo?” Questa sorprendente notizia si divulgò in breve in tutta la città di Mithilâ.
Non solo la notizia venne diffusa, ma il re Janaka immediatamente organizzò tutti i preparativi per il matrimonio. Janaka aveva due figlie, Sîtâ e Ûrmilâ, ma anche il fratello più giovane di Janaka, il re Kushadhvaja, aveva due figlie. Le quattro ragazze erano quattro gioielli, e risplendevano come il sole e la luna.
Pensando alle due ragazze ancora da sposare, il precettore Vashishta si avvicinò a Kushadhvaja e gli disse: “So che hai due figlie. Da’ queste due ragazze in moglie a Bharata e Shatrughna.” Nessuno sapeva di questo progetto; neppure Janaka ne era a conoscenza. Kushadhvaja accettò immediatamente, e comunicò la notizia al fratello maggiore: Janaka versò lacrime di gioia.
Il re fece preparare le quattro ragazze e le condusse sul palco. Quando i quattro fratelli furono insieme alle quattro sorelle, sembrava che l’intera città di Mithilâ s’illuminasse. Nessuno poteva descrivere la felicità che esse provarono, perché avevano avuto davvero una gran fortuna. Inizialmente, tutti pensavano che doveva essere celebrato solo il matrimonio di Sîtâ, ma alla fine anche le altre tre ragazze, la sorella di Sîtâ e le due cugine, convolarono a nozze, perché tale era il disegno di Dio. Se Dio si prefigge un proposito, può realizzare tutto in un solo momento.

A chi è possibile?
Chi può eseguirlo?
Chi può farlo?

La gente diceva: “A chi è possibile? Nessuno riesce a farlo! È solo il proposito di Dio; Egli è il testimone.”

 

Condotta irreprensibile
I quattro fratelli si sedettero in attesa che venisse celebrato il matrimonio, ma non guardarono nessuno. Oggi, invece, la sposa e lo sposo chiacchierano e ridono fra loro, e si verificano anche tante altre alterazioni.
Râma, Lakshmana, Bharata, Shatrughna, Sîtâ, Ûrmilâ, Mândavi e Shrutakîrti tenevano la testa china, senza guardare in faccia nessuno. Essi sparsero il riso benedetto, e seguirono attentamente le istruzioni dei sacerdoti. A quei tempi c’era gran rispetto, moralità e contegno.
Si è reso necessario che vi dicessi tutto ciò, per rivelarvi quanto grandi fossero i valori a quei tempi.
Janaka, che si trovava accanto a Râma, gli disse: “Râma, ecco Sîtâ, ecco mia figlia Sîtâ!” Râma, tuttavia, non le rivolse lo sguardo. Janaka Gli disse di guardarla, ma Râma non lo fece, e il re ci rimase male. Egli, in ogni caso, non la guardò. Perché? Secondo l’usanza del tempo, gli sposi potevano guardarsi la prima volta solo dopo aver legato il sacro cordone nuziale (corrispondente allo scambio degli anelli – N.d.T.), ma, fino a quel momento, non era consentito guardarsi.
Essi osservarono così queste rigide regole. Una simile disciplina non sarà più riscontrabile né oggi, né domani; nessuno sarà più in grado di dare un esempio ideale come Râma, Lakshmana, Bharata e Shatrughna.

 

Tenere alto l’onore
La cerimonia nuziale si stava quindi concludendo, e gli sposi dovevano inghirlandarsi reciprocamente. Le spose erano in piedi e tenevano in mano le ghirlande, e così pure gli sposi. I genitori che erano accanto a questi ultimi, li sollecitavano: “Figli cari, quanto tempo dovranno aspettare le spose? Presto, mettete le ghirlande, fate presto!” Dopo che Râma ebbe messo la ghirlanda di fiori attorno al collo della Sua sposa, Lakshmana, Bharata e Shatrughna fecero lo stesso con le rispettive spose.
Anche le ragazze dovevano, però, inghirlandare gli sposi. Sîtâ aveva la ghirlanda di fiori in mano e aspettava di poterlo fare, ma Râma non chinò la testa. “Ho sollevato l’arco di Shiva valorosamente, guadagnandoMi rispetto e stima; non mi va di abbassare la testa di fronte a una così vasta folla. Devo tenere alto il Mio onore; perciò non abbasserò il capo”, pensò Râma.
Così, rimase in piedi eretto. Egli era molto alto e possente. Sebbene i quattro fratelli fossero ancora in giovane età, i loro corpi erano già ben formati. Intanto, tutta la gente guardava la scena e mormorava: “Perché Râma non abbassa la testa?”
Anche Râma non voleva stare lì in piedi ancora a lungo, e così diede un’occhiata a Lakshmana. Si capiva chiaramente che Lakshmana aveva un’intelligenza molto acuta; anche Bharata e Shatrughna avevano un intelletto sottile e arguto.
I versi di Tyâgarâja(1) recitano:

“Potrebbe una scimmia attraversare il vasto oceano?
Potrebbe Egli esser legato a una pietra da macina?
Lakshmî Devî, la Dea della ricchezza,
Lo avrebbe forse amato?
Lakshmana Lo avrebbe servito?
Bharata, dall’acuto intelletto, si sarebbe inchinato davanti a Lui?
Che meraviglia sono gli straordinari poteri di Râma!”

Nel passato Tyâgarâja descrisse quei poteri, esaltandoli con questi versi.
L’occhiata di Râma voleva suggerire a Lakshmana di alzare la terra, in modo che anche Sîtâ potesse essere sollevata un po’. Lakshmana osservò che ciò non era possibile. Perché? Egli era Âdishesha (il serpente dalle mille teste – N.d.T.), che sorregge la terra sulla testa; se avesse sollevato Sîtâ anche tutti gli altri sarebbero stati sollevati. Perciò non era possibile farlo. Allora Râma esclamò: “Trova un altro sistema!” Improvvisamente, Lakshmana corse a gettarsi ai Piedi di Râma, e non si rialzò. Allora Râma si curvò in avanti per tirarlo su, e affermò: “Lakshmana, alzati!” Nell’istante in cui Egli s’abbassò, Sîtâ tempestivamente Gli pose la ghirlanda intorno al collo.
Poi anche Ûrmilâ e Shrutakîrti inghirlandarono i loro rispettivi mariti. Essi dimostrarono in tal modo quale contegno e quanta nobiltà ci fosse nelle loro azioni e nel loro carattere, e quanta stima si fossero guadagnati. La cerimonia nuziale si era così conclusa, e tutti fecero ritorno ad Ayodhyâ, dove i festeggiamenti continuarono grandiosi; ma non è questo cui dobbiamo pensare ora. Quel che conta è approfondire e illustrare le virtù di Râma, Lakshmana, Bharata e Shatrughna, e anche le qualità di Sîtâ, Ûrmilâ, Mândavi e Shrutakîrti. Esse erano molto virtuose e provenivano da famose famiglie reali. Il re Janaka acquisì gran fama, conseguì il controllo dei sensi, eccelse nel karma yoga(2) e fu un’autorità inestimabile nello jñâna yoga(3).
Le figlie di un uomo come Janaka, come pure le figlie di suo fratello, non erano certamente persone comuni.

 

Il marito è Dio
Solo a Râma fu chiesto di andare in esilio nella foresta, ma Sîtâ non prestò attenzione a simile ingiunzione. Râma si recò da Sua madre, la quale stava pensando: “Ero così felice all’idea dell’imminente Incoronazione; poi, a un tratto, è arrivata la notizia dell’esilio!” Ella si sentiva molto scoraggiata.
“Caro figlio, sei in procinto di andare nella foresta, accettando così soltanto la parola di Tuo padre. E la parola della madre? Io sono la sua metà, non è vero? Io sono la metà del corpo di Tuo padre, non è così? Dunque, che cosa stai facendo per obbedire a questa metà? Verrò anch’io con Te!”
Râma allora le diede un consiglio: “Madre, il marito è Dio: nessuno è superiore al marito. Egli è in età avanzata; non solo, è anche disperato a causa di questa dolorosa novità. Non devi abbandonarlo per venire con Me; devi servirlo e consolarlo, e infondergli il coraggio necessario.” Râma diede a Sua madre molti altri suggerimenti, mentre Sîtâ udì tutto quanto.
Dopo aver fatto ritorno alla Sua residenza, Râma, per assecondare il desiderio di Kaikâ, indossò una veste fatta con le fibre di una pianta. Anche Sîtâ indossò una veste del genere, ed esclamò: “Devo venire anch’io!” Ma Râma replicò: “Tu non puoi venire!”
A quelle parole, ella osservò: “Râma, c’è forse un tipo di consiglio da dare alla madre, e uno completamente diverso per me? Entrambe siamo donne, non è vero? È peculiarità di una donna conferire gioia al proprio marito, e prendersi cura dei suoi bisogni e comodità: questa regola si applica anche a me, non è forse vero? Il mio Dharma è di dare gioia a mio marito e di badare al suo benessere, non è così? Perciò, non accetto che Tu mi dica di rimanere qui.” Quando Sîtâ parlò in quei termini, Ûrmilâ, Mândavi e Shrutakîrti rimasero in silenzio. Infine, accadde proprio come Sîtâ aveva affermato.

 

Al servizio di Sîtâ e Râma
Tutti sapevano che l’Incoronazione sarebbe avvenuta il giorno seguente. Mândavi era una gran pittrice, ma anche Ûrmilâ lo era. Quest’ultima pensò: “Domani avrà luogo l’incoronazione di Râma e Sîtâ: devo quindi dipingere la scena del matrimonio per inviarla a mio padre.” Con gran gioia si era seduta in una stanza, e aveva cominciato a dipingere.
Lakshmana si recò da Râma, capì quel che stava succedendo, e s’arrabbiò molto. Râma non prestava la minima attenzione alle argomentazioni che tutti sollevavano, ma prendeva per vere solo le parole di Kaikâ. Lakshmana, allora, ancora incollerito, andò da Ûrmilâ. Quando le fu vicino, esclamò: “Ûrmilâ!” La moglie si accorse che era adirato. Egli affermò: “Vado nella foresta.” Ûrmilâ che stava dipingendo, si alzò di scatto, e tutto il colore si rovesciò e si sparse sul dipinto: “Stavo dipingendo l’incoronazione di Sîtâ e Râma, e ora tutto è rovinato”, ella esclamò.
Lakshmana allora osservò: “Ûrmilâ, io ti ho rovinato il dipinto, e Kaikâ ha rovinato l’incoronazione di Râma. Entrambe le cose sono state rovinate; ma ora devo andare.”
Considerate quanta fede, quanto coraggio e che cuore sacro aveva Ûrmilâ.
Suo marito aggiunse che anche Sîtâ sarebbe andata in esilio nella foresta. Ûrmila ne fu felice: non ebbe la caparbietà di dire: “Vengo anch’io.”
“Signore! Fa’ ogni possibile sforzo per servire Sîtâ e Râma; da quando ti alzerai presto al mattino sino all’ora di coricarti la sera, dovrai essere immerso nel servizio di Sîtâ e Râma. Non ricordarti neppure del mio nome; non pensare che io sono qui ad Ayodhyâ. Dimenticati di Ayodhyâ. La foresta dove c’è Râma è Ayodhyâ, e Ayodhyâ senza di te è una foresta. Perciò, non pensarmi. Io, invece, penserò a te e trascorrerò il mio tempo lietamente.” Con queste parole, Ûrmilâ diede a suo marito una gran prova di coraggio.
Non solo gli infuse coraggio, ma pensò anche: “Se pensa a me, ciò sarà un ostacolo al suo servizio”, e gli fece quindi fare una promessa. “Durante questi quattordici anni non pensare a me neppure per un istante. Râma è tuo padre, e Sîtâ è tua madre. Il servizio reso loro deve essere per te la cosa più importante; quindi dimenticati di noi.” Glielo fece promettere, e poi lo mandò via contenta. Kaushalyâ può aver sofferto, ma Ûrmilâ non soffrì affatto.
Le mogli dovrebbero essere tutte così; una moglie dovrebbe infondere coraggio e fermezza al proprio marito. La moglie è denominata illâlu (padrona della casa), dharmapatnî (compagna nel dharma), e grihalakshmî (Dea della casa). Infatti, Ûrmilâ trasmise il Dharma a suo marito, Lakshmana.

 

Sumitrâ aveva un cuore buono
Bharata, Shatrughna, Mândavi e Shrutakîrti erano assenti, poiché si trovavano nel regno di Kaikaya; questo successe quando Râma, Lakshmana e Sîtâ furono mandati in esilio. Madre Kaushalyâ soffrì molto. A questo punto dobbiamo ricordare, però, le qualità di Sumitrâ (su = buono, mitra = amico). Era, infatti, una buona amica, come indicava il suo nome, e aveva un cuore buono e stabile. Ella non pianse.
Sumitrâ disse a Kaushalyâ gioiosamente: “Sorella maggiore, perché soffri e stai così male? Nessun pericolo potrà colpire Colui che è nato per l’elevazione del mondo. Se invece, adottando una visione terrena, ritieni che Egli sia un corpo umano, allora considera che mio figlio è qui per prendersi cura di Lui. Lakshmana è un sevak (colui che rende servizio disinteressato – N.d.T.) di Râma; Lakshmana è con Râma, e quindi non devi temere nulla.
Tuttavia, Kaushalyâ, essendo la madre che Lo aveva portato in grembo, stava molto male ed era incapace di sopportare tanta sofferenza. In una circostanza del genere, quali consigli le diede Sumitrâ? Oh, che grandi insegnamenti! Nessuno, però, cerca di approfondire gli insegnamenti dati da Sumitrâ nel Râmâyana.
Tutto ciò fa parte soltanto del grande disegno divino; infatti, tutti sono piani di Dio, non progetti fatti da voi o da me. Dio ha stabilito ciò per l’elevazione del mondo e il ripristino del Dharma.
“Non piangere! Se piangi perché i tuoi figli si recano nella foresta, ciò sarà di malaugurio per loro. Devi sorridere e benedirli.” Con queste parole, Sumitrâ infuse molto coraggio a Kaushalyâ, che, non avendo altra scelta, accettò la situazione.
Dasharatha si riebbe dal malore che gli aveva fatto perdere i sensi, e corse per le strade, chiamando: “Râma, stai andando via? Vai via?” Dasharatha gridò a Sumantra, l’auriga del carro: “Sumantra, fermati! Ferma il carro. Devo vedere Râma ancora una volta!”
Râma, invece, non disse a Sumantra di fermarlo né di procedere, ma gli disse soltanto: “Fai il tuo dovere.” Molti pensano che Râma abbia detto una falsità, e che abbia suggerito a Sumantra di dire a Dasharatha di non aver udito le sue parole, incitando così l’auriga del carro a dire il falso. In realtà, Râma mantenne il silenzio.
Râma e Lakshmana erano molto fermi e decisi quando si presentavano situazioni simili. Râma era determinato a uscir vittorioso, a mantenere la parola data da Suo padre, e a dare soddisfazione alla madre.

 

Lakshmana non guardò mai Sîtâ
Durante i quattordici anni dell'esilio, Lakshmana, che era sempre stato con Sîtâ e Râma, non aveva mai alzato gli occhi per guardare Sîtâ.
Mentre Sugrîva e gli altri un giorno si trovavano su una montagna, improvvisamente dall'alto arrivò giù un involto. Sîtâ aveva legato insieme i gioielli che indossava (quando era stata rapita da Râvana – N.d.T.) e li aveva buttati giù. Sugrîva li raccolse e li mise al sicuro.
Una volta, mentre Râma e Lakshmana erano in cammino, incontrarono Sugrîva e si misero a conversare con lui. Parlando del rapimento di Sîtâ da parte di Râvana, egli mostrò loro i gioielli. “Sono questi gli ornamenti di Sîtâ? Oppure è stato un demone a legarli insieme?” Râma guardò i gioielli, ma non li riconobbe affatto.
Oggi, invece, i mariti fanno una lista dei gioielli della moglie, e li enumerano uno a uno. Râma non li conosceva e sembrava che anche Lakshmana non ne sapesse nulla. Quando però li guardò ne riconobbe soltanto uno: “Queste cavigliere appartengono a mia cognata.” Râma gli chiese: “Come fai a riconoscere proprio le cavigliere?” “Dopo le abluzioni del mattino, era mia abitudine prostrarmi ai piedi di Madre Sîtâ; perciò vedevo sempre queste cavigliere”, rispose Lakshmana.
Sebbene tutti e tre fossero stati insieme per ben quattordici anni, Lakshmana non aveva mai alzato gli occhi per guardare Sîtâ. Avendo un carattere così virtuoso, essi meritarono il titolo di “lavanya”.
In sanscrito, l'epiteto lavanya significava possedere un'ottima fama. Oggi la gente lo usa come un semplice nome, ma non è così. L'epiteto lavanya  si riferisce a chi possiede forza, fermezza e santità. Infatti, il carattere e le qualità di Râma e Lakshmana erano straordinarie.

 

La morte del padre
Essi appresero la notizia della morte del padre, Dasharatha. Incapace di sopportare la separazione da Râma, Dasharatha spirò nel dolore. Dovevano perciò essere eseguiti i riti funebri, ma chi se ne sarebbe preso cura? Râma e Lakshmana non c'erano, Bharata e Shatrughna si trovavano nel regno di Kaikaya e avrebbero impiegato dieci giorni per ritornare. Allora, come fare per preservare il corpo di Dasharatha così a lungo?
Vishvâmitra e Vashishta dissero di preservarlo nell'olio, e così avvenne. Oggi i dottori usano il ghiaccio, ma a quell'epoca tutto ciò non esisteva. Il corpo di Dasharatha rimase quindi nell'olio per quattordici giorni.
La grandezza di Shatrughna
Bharata e Shatrughna fecero ritorno. Shatrughna era davvero grande: era come Lakshmana. Bharata era maggiore di Shatrughna, e Lakshmana era più giovane di Râma, ma i più giovani si misero al servizio dei due fratelli maggiori. Bharata era solito seguire i consigli di Shatrughna; quest'ultimo possedeva una forza prodigiosa, poiché, come suggerisce il suo nome, Shatrughna è colui che uccide gli shatru,  i nemici. Non c'era nessun altro che avesse un potere superiore al suo nell'eliminare i nemici; infatti, grazie alla sua presenza, persino Râma, Lakshmana e Bharata erano tanto contenti (poiché si sentivano al sicuro – N.d.T.). Shatrughna non parlava spesso, mentre Lakshmana, in qualche occasione e circostanza, parlava molto.

 

L’âshram di Manmatha
Essi s'addentrarono nella foresta, attraversarono il fiume Sarayu e si avvicinarono al Gange, dove venne portata una barca per consentire loro di attraversare il fiume e raggiungere l'altra sponda.
Nella foresta videro un bellissimo âshram. Lakshmana esclamò: “Fratello maggiore, che cos'è questo grande âshram? È grande come una città.” Vishvâmitra osservò: “Non abbiate fretta, non abbiate fretta! Questo non è un luogo comune; è l' âshram  di Manmatha, il Dio dell'amore. Manmatha (Cupido), era estremamente affascinante, attraeva tutti e possedeva sia i poteri interiori sia quelli esteriori; era perciò molto potente.”
Egli volle, tuttavia, esercitare la sua influenza anche su Îshvara (Shiva), il quale lanciò contro di lui una maledizione; da quel giorno Manmatha venne privato delle membra del corpo ( anga) e della sua forma. Pertanto, questa regione, denominata Anga Desha  (‘Luogo delle Membra'), è il luogo dove Îshvara s'aggirò, è la Sua zona, ed è quindi un Suo regalo.”
Per quella notte essi dormirono nell' âshram. All'alba del mattino successivo, i residenti dell' âshram  si radunarono per salutarli. “Questi sono i figli di Dasharatha; bisogna rendere loro il dovuto rispetto.” Così, gli abitanti dell' âshram  di Manmatha li congedarono, e diedero loro una bella barca, con cui attraversare il fiume.

 

La spaventosa foresta
Entrarono in una foresta che incuteva un gran terrore, dove c'erano molti animali selvatici. A un certo punto essi udirono un rumore tremendo. Râma chiese: “Riverito Maestro, che rumore è mai questo?” “Caro, esso è causato dal fiume Sarayu che confluisce nel Gange. Il Gange è come l'oceano e Sarayu è il fiume. Quel suono assordante è prodotto quando il fiume si unisce all'oceano.”
Era una foresta piena di bestie feroci e di demoni crudeli; ovunque andassero, essi udivano suoni terrifici e selvaggi. Vishvâmitra diede la sua benedizione: “Râma, possa Tu avere ogni bene e ogni fortuna.”
Cammin facendo, Vishvâmitra a un certo punto rimase solo con Râma, poiché Lakshmana era rimasto indietro, essendosi appartato un po' più lontano per un bisogno naturale. Quando fece ritorno, la mente di Lakshmana era improvvisamente mutata. Egli disse: “Fratello maggiore, perché mai ci troviamo in una condizione così miserabile? Tu, che dovresti avere ogni gioia, sei ridotto in questo stato, in una situazione così spaventosa. Tutto ciò non va; organizzerò io quanto è necessario per porvi rimedio. Ritorniamo ad Ayodhyâ. Come possiamo vivere in questa foresta selvaggia? Come faremo a procacciarci il cibo?” Egli parlò in tono adirato.
Râma mantenne la calma, gli prese la mano e lo condusse un po' più lontano. Quell'ira rimase in lui finché varcarono il confine di quel luogo. Dopo aver camminato per un po', Râma fece sedere Lakshmana sotto un albero e lo tranquillizzò.
Râma gli disse: “Questa è la regione di Shûrpanakhâ (la demone sorella di Râvana – N.d.T.): qui si aggira ed esercita la sua influenza. Pertanto tutte le qualità negative di Shûrpanakhâ sono entrate in te. Allontaniamoci da qui, andiamo in un altro posto.” E così fecero.
Dopo essersi allontanati, Lakshmana si pentì e osservò: “Come ho potuto pronunciare parole così dure? Esse non provenivano da me; erano causate dalla vibrazione dei demoni, non certo dal mio sentimento.” S'inchinò poi davanti a Râma, dicendo: “Perdona il mio errore. Come faremo a vivere a lungo in questa foresta infestata dai demoni?”
Mentre conversavano, la vibrazione del siddhâshram  li pervase, avvolgendoli in una sacra atmosfera; essi sentirono una fresca e dolce brezza, il canto degli inni vedici e il suono dei mantra . Vishvâmitra disse: “Figlio, questo è il nostro siddhâshram . Vâmana (l'Avatâr nano – N.d.T.) nacque in questo luogo, e qui visse Shiva.” Poi spiegò loro molte cose circa

Il rito sacrificale
Il saggio affidò loro un incarico: “Voi siete venuti per proteggere il rito sacrificale e dovete, quindi, assumervi tale responsabilità; questo è anche l'ordine di vostro padre. Sin d'ora dovete rinunciare al cibo e al sonno, e già questo di per sé è un grosso sacrificio!” Râma e Lakshmana erano pronti; essi non diedero alcun segno di stanchezza o di debolezza.
Al mattino presto la cerimonia ebbe inizio; i due giovani perlustravano tutt'intorno facendo la guardia, Râma da un lato e Lakshmana dall'altro.
Improvvisamente, si udì un rumore spaventoso. Il precettore esclamò: “Questa è una demone. Arriveranno anche gli altri demoni, Chandra e Amarka. Siate pronti!” Non c'era cibo né acqua, e per chi aveva sete non c'era alcuna possibilità di dissetarsi. Tuttavia, essi erano pienamente determinati a svolgere il compito loro assegnato; infatti, uccisero i demoni, consentendo così al saggio di portare a termine il rito sacrificale. Râma e Lakshmana erano pienamente dediti a rendere questo servizio a Vishvâmitra.
Non appena il rito fu concluso, arrivò un battaglione di soldati con un messaggio per il saggio: un invito da parte del re Janaka. Quest'ultimo aveva fatto pervenire a tutti i re l'invito per tentare di sollevare l'arco di Shiva. Janaka invitava anche il Saggio Vishvâmitra: “Essendo un insigne Maestro, anche tu dovresti partecipare.”
Vishvâmitra raccontò molte cose a Râma e Lakshmana, e trasmise loro un vivo entusiasmo. “Miei cari, dovete assolutamente vedere l'arco di Shiva. Non esiste nulla di simile al mondo; in realtà, esso proviene direttamente dal paradiso, non è un arco ordinario; dovete proprio vederlo!”
A queste parole, i due giovani si entusiasmarono, ma fecero un'osservazione: “Maestro, nostro padre ci ha mandato a proteggere il tuo sacrificio, ma non ci disse di assistere a un'altra cerimonia; noi non andremo contro l'ordine di nostro padre.” Allora il saggio replicò: “Dasharatha disse di obbedire agli ordini di Vishvâmitra, non è vero? Pertanto, dovete seguire il mio comando.” Essi tennero allora la bocca chiusa, e iniziarono il loro viaggio con Vishvâmitra.
Cercate di comprendere con quanta sottile intelligenza Râma abbia svolto ogni Suo compito, e in qual modo abbia annientato le attività dei demoni. In verità, tutto ciò fa parte degli antichi piani divini; infatti, era stato predetto anche da Lankinî che Râma, Lakshmana, Bharata e Shatrughna sarebbero nati e avrebbero distrutto i demoni.
Quando Brahmâ apparve, disse a Râvana: “Che cosa vuoi? Non gli Dei né i demoni o i Semidei potranno ucciderti. Tu non sarai ucciso da nessuno di loro.”
A questo punto, Râma fece un'acuta osservazione: “Swami, che cosa promise Brahmâ? Chi non avrebbe potuto uccidere Râvana?” Vishvâmitra replicò: “Né i demoni, né gli Dei, né i Semidei; neppure gli Dei avrebbero potuto ucciderlo.” Allora Râma, sorridendo, aggiunse: “Swami, Brahmâ però tralasciò di affermare che neanche un uomo avrebbe potuto uccidere Râvana; di ciò non fece menzione! Perciò, solo un essere umano può ucciderlo. Io sono un essere umano: Râvana sarà quindi ucciso da Me.” Râma invitò Vishvâmitra a diffondere tale notizia: “Râma ucciderà Râvana!”
Râma riconobbe gli aspetti sottili di ogni singolo mantra  e dei riti sacrificali. Egli affermò:

“La Sacra Scrittura è sconfinata come l’oceano,
è dimora di saggezza.
La sua piena conoscenza dona
liberazione e prosperità.”

Gli aspetti divini sono importanti in tutte le cose.
(Swami elenca svariati nomi usati per i Semidei – N.d.T.).

 

Significati profondi del Râmâyana
Il Sole è la nostra Divinità di famiglia. La nostra razza discende dal Sole; il mondo intero non potrebbe esistere senza il Sole. In passato, ci vollero alcune decine di milioni di anni prima che la luce apparisse. Allora c'era solo oscurità, oscurità, oscurità, oscurità.
Dopo la nascita di Râma, per 15 giorni, il Sole non si levò. Senza il sorgere del Sole, non c'era neppure il sorgere della Luna, e quindi sia il Sole sia la Luna si sentivano a disagio. La Luna rivolse una preghiera al Sole: “Voglio vedere Râma, ma non c'è la possibilità di vederLo; quando potrò vedere Râma?” La Luna intraprese, quindi, molte penitenze e austerità. Allora Râma andò dalla Luna e le promise: “Tu non Mi hai visto in questi 15 giorni; perciò nella Mia prossima incarnazione ti concederò il primo darshan  che altri non avranno.” Infatti, quando l'Avatâr  Krishna nacque, Vasudeva nel cuore della notte si mise l'Infante sulla testa e Lo portò via. Pertanto, la Luna fu la prima a vederLo; nessun altro Lo vide. (Applausi). Come promesso, Egli diede alla Luna il Suo primo darshan.
Ci sono perciò molti significati profondi nel Râmâyana. La storia di Râma è sempre nuova e meravigliosa. Anche se viene ascoltata molte volte, c'è sempre il desiderio di ascoltarla di nuovo. I lîlâ (giochi) di Râma non si scordano, non possono essere dimenticati. Tutte le Sue opere erano perfettamente conformi al Dharma, le Sue parole corrispondevano al Dharma, le Sue azioni erano in sintonia con il Dharma.
Molti cercarono di scoprire difetti e manchevolezze nella storia di Râma, e perciò venne trasmessa in modo empio. Tuttavia, in essa non esiste traccia di discordanza, non c'è la minima falsità; dall'inizio alla fine la storia di Râma è Verità, pura ed eterna.
Per oggi fermiamoci all'episodio del siddhâshram. Le qualità dei quattro fratelli, Râma, Lakshmana, Bharata e Shatrughna sono veramente straordinarie. Vashishta disse: “È straordinaria! Sacra nei tre mondi è la storia di Vishnu! Con ricchi raccolti, amici, abitanti della foresta, gente e cittadini.”


(Bhagavân conclude il Suo Discorso con il bhajan:  “Râma, Râma, Râma, Sîtâ…”)

 

Whitefield, 18 Maggio 2002,
Corso Estivo 2002
versione integrale

 

  1. Tyâgarâja – Un grande santo, famoso compositore di musica spirituale, nativo di Tanjore e vissuto fra il 1767 e il 1847. Il suo nome letteralmente significa “il re della rinuncia e del sacrificio”.
  2. Karma yoga  – La via dell'azione disinteressata. Sentiero spirituale dell'agire in questo mondo senza ricercare o aspettarsi i frutti della propria opera. Compiendo l'azione senza attaccamento, si consegue la Suprema Realtà.
  3. Jñâna yoga  – La via della Conoscenza e della Saggezza, i cui presupposti sono discriminazione e distacco. È la Conoscenza di Dio che comprende in sé ogni altra conoscenza; è esperienza della Verità Assoluta di là del tempo e dello spazio.