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19710324 - 24 marzo

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Discorso Divino
Bhagavân Shrî Sathya Sai Baba

Discorso del 24 marzo 1971

Liberazione dalla schiavitù


Per realizzare la loro ambizione più grande, quella di entrare nel regno in cui non ci sono legami, molti aspiranti spirituali si sono sottoposti a discipline lunghe e difficili, hanno recitato il Nome, meditato sulla Forma o negato i sensi. Ci sono altri che si sono avventurati, con la ragione come unica guida, nei regni della coscienza profonda e hanno scoperto che la liberazione consiste nel capire che la realtà si trova dietro tutti i fenomeni molteplici e passeggeri. Le esperienze di questi eroi ed eroine vengono però ignorate, come millanterie di individui strampalati, da coloro che vivono sulla fragile superficie del primo dei cinque involucri della personalità umana: l’involucro fisico (annamaya kosha). Essi identificano il corpo come se stessi e non scavano dietro l’illusorietà, nel regno della Verità. Tali cinici, che condannano il metodo vedantico di affrontare i problemi della vita, non sono rari neppure nella terra che diede alla luce il Vedânta! La causa del loro atteggiamento consiste nel non comprendere che il Vedânta racconta soltanto la storia vera di ognuno di loro, che non fa altro che porre di fronte a ognuno la sua immagine reale mondata di deficienze ed esagerazioni. La liberazione (moksha) non è un paradiso speciale o esclusivo per cui si debba ottenere l’ammissione; non è uno stato speciale, un’acquisizione o una proprietà: è soltanto la rimozione del concetto errato di essere legati e limitati dal corpo, dai sensi, dall’intelletto, dalla mente, dall’ego e da altre fantasie. Qual è esattamente il legame di cui ognuno deve liberarsi? Le catene sono state forgiate dalla paura e dall’ansia, prodotte dal desiderio che tiene l’individuo nella sua presa. Fondamentalmente, la paura nasce perché voi pensate che ci sia un altro oltre a voi stessi, un secondo! Se non c’è un altro, chi si può temere? La prima persona è il Testimone, l’Io; la seconda è “tutti gli altri esseri e le cose che si vedono, che si osservano: la natura”.

La rinuncia conferisce l’immortalità

Il mondo oggettivo è l’illusione causata dall’ignoranza che rende inconsapevoli dell’Uno che appare come i molti. L’ignoranza causa l’identificazione con il “mio”, cosicché noi ci addoloriamo quando muore qualcuno a cui siamo legati, mentre non siamo dispiaciuti affatto quando muore qualcun altro che non rientra nella cerchia dei nostri amici e parenti. È il senso di “io” e “mio” che causa il dolore e la paura, ed è per questo che le Upanishad proclamano che soltanto la rinuncia dona l’immortalità, la libertà e l’appagamento. La saggezza più elevata è la consapevolezza dell’Unità, l’Uno che è tutto questo; in effetti, c’è un solo Brahman, non due. Voi raggiungete questo quando siete nel sonno profondo, quando la coscienza di tutti i pensieri, dei sentimenti, delle emozioni, delle passioni e degli attaccamenti cessa e rimane soltanto l’Io e la felicità di essere soltanto l’Io. Mentre si dorme, non si prende però coscienza della Beatitudine! Voi dichiarate di aver dormito bene solamente dopo esservi svegliati; se solo foste consapevoli della Beatitudine (Ânanda), il sonno sarebbe samâdhi perché è Beatitudine pura. Nello stato di veglia, voi avete coscienza, ma non Ânanda; se riuscite a sperimentare la coscienza dello stato di veglia e la Beatitudine dello stato di sonno, insieme e pienamente, quella è Liberazione vera (moksha). Allora avrete consapevolezza, conoscenza e Beatitudine genuine, sarete Sat-Chit-Ânanda Stesso, puro e semplice.

Il frutto dell’albero dell’Amore è la Saggezza (Jñâna)

Voi dovete cogliere il momento in cui lo stadio di veglia passa in quello di sonno e concentrarvi su di esso purificandolo di tutte le agitazioni e dei pensieri che guastano la Saggezza e la Beatitudine. Naturalmente, all’inizio è difficile! Quando guidate da un bel po’ in piena notte, arriva il momento fatidico in cui, dalla coscienza della veglia, scivolate nel sonno! Non c’è niente che non possiate raggiungere con la pratica! Voi avete appreso le abilità strane e complicate di camminare eretti, di scrivere, leggere e interpretare, tutto con l’esercizio, non è vero? Questo è il modo di acquisire e sperimentare la Saggezza spirituale (Jñâna) che sola può far raggiungere la liberazione dalla paura e dal dolore. Dal seme dell’Amore, spunta il germoglio della devozione al Signore. Il devoto vede tutto come manifestazione della Gloria di Dio, considera ogni azione come opera Sua, ogni parola come la Sua Voce e offre a Lui ogni pensiero, parola e azione ispirata e sollecitata da Lui. Egli vede quindi il mondo come Dio; Dio è il mondo, non c’è alcun secondo. Il frutto dell’albero dell’Amore è Jñâna; la dolcezza di quel frutto è la Beatitudine ed esso contiene di nuovo il seme dell’Amore da cui il germoglio distende le sue foglie. Nella Forma Cosmica di Dio (Vishva-Virât-Svarûpa), la cui visione Krishna concesse ad Arjuna, egli vide se stesso unitamente ai suoi fratelli e cugini!

Prashânti Nilayam, 24 marzo 1971

(Tradotto dal testo pubblicato da: www.sathyasai.org)